ANVERSA: MUSEO EMIGRAZIONE

 La storia delle migrazioni umane da cinquemila anni prima di Cristo fino agli sbarchi di Lampedusa: si parte dallo scheletro ritrovato in Austria di una giovane donna giunta dalla Boemia con le prime carovane di mercanti fino ad arrivare alle storie di immigrazione clandestina dei nostri giorni. E’ questo il percorso che deve seguire chi visita il nuovo “Red Star Line Museum” di Anversa, situato nell’edificio che ospitava gli emigranti europei prima di salire a bordo del piroscafo di questa compagnia di navigazione che li avrebbe portati in America. Due milioni di emigranti, tedeschi, belgi o russi, hanno utilizzato questa linea. La prima nave fu la Cybèle, partita per New York nel marzo 1874, mentre delle ultime tre, appartenenti alla compagnia gemella della Red Star, la White Star, due furono molto sfortunate, cioè il Titanic naufragato nel 1912 e il Britanic silurato dai tedeschi nel 1916,e solo l’Olympic sopravvisse fino al 1935.
Si tratta di un viaggio nel tempo, al pianterreno del Museo. Con una moderna installazione multimediale e un’ampia collezione di videotestimonianze si raccontano le vite e le esperienze di migranti rappresentativi del loro tempo e delle condizioni di vita del paese da cui sono partiti. Ne citiamo solo alcuni tra quelli illustrati nel museo: l’astronomo persiano Jamal-al-Din del 1200, i cui servizi sono stati molto apprezzati a Pechino; oppure più recentemente il greco Georges Siamanides, costretto dai Turchi nel 1923 ad emigrare in Russia, o l’ebrea polacca Mathilda Weinfeld, salvatasi dai lager nazisti e poi emigrata in Israele. Ma si ricordano anche gli haitiani, i congolesi o gli indù e i numerosi emigrati dai paesi dell’est. Una panoramica completa di situazioni tragiche e di esperienze di vita che illustrano i motivi e le circostanze che hanno obbligato tante persone ad abbandonare il loro paese.
Nel settore dei principali testimoni si racconta tra l’altro la storia di un personaggio famoso come Albert Einstein, emigrato definitivamente negli Stati Uniti nel 1933, dopo aver compiuto numerosi viaggi con la Red Star, il primo dei quali nel 1920 sulla Belgenland. Ma vi sono anche persone comuni, come i membri della famiglia belga di Jozef Hutlet, che con otto figli affrontarono i venticinque giorni di viaggio necessari per arrivare in Canada. E l’unico ricordo da loro lasciato è un patetico stampo da cucina che serviva a preparare le “gaufres”.
Se si sale al primo piano del museo, si entra nel vivo delle difficoltà che gli emigranti dovevano affrontare al momento di lasciare il porto di Anversa e poi a bordo della nave. La visita medica molto sommaria all’inizio, diventa meticolosa a partire dagli anni venti. Il controllo amministrativo, di biglietti e passaporti, un lungo questionario da riempire, delle garanzie da fornire, tutto questo richiedeva molto tempo, con la paura di essere respinti dopo il lungo viaggio in treno per arrivare ad Anversa. Un particolare che colpisce molto i visitatori riguarda l’odore che caratterizzava gli emigranti e che li faceva riconoscere da lontano in qualsiasi ambiente: un misto di aceto e di benzene, per la disinfestazione antipidocchi. Chi non abbia l’olfatto delicato può risentire questo odore ricreato artificialmente.
Infine a bordo, ammassati in terza classe, in condizioni di promiscuità e con un cibo non certo abbondante (nel 1876: 2,5 chili di patate, 500 grammi di lardo e due aringhe per passeggero alla settimana), servizi igienici scarsi.
L’arrivo a Ellis Island, l’isola di fronte alla Statua della Libertà, dove fino al 1924 i candidati all’ingresso negli Stati Uniti venivano esaminati ed eventualmente respinti se ammalati o indesiderabili. Si potevano svolgere scene strazianti, magari di un figlio ammalato (di tubercolosi o di tracoma) respinto e costretto a separarsi dai genitori. Dal 1925 queste ispezioni si svolsero poi nei porti di partenza, non più all’arrivo.
Ci sarebbe molto altro da dire su questo museo, così didascalico e istruttivo, soprattutto per ragazzi e giovani abituati a ben altre condizioni di vita. Tra l’altro, salire in cima alla torre nel museo consente di godere di un panorama grandioso su Anversa e il suo porto.
Sono state formulate alcune critiche al museo: l’eccessivo spazio dato all’ingresso e alla “cafeteria” ricavata dal vecchio deposito bagagli, a scapito dello stesso museo, l’uso di una sola lingua, l’affollamento che impedisce un facile accesso alle installazioni.
 L’impressione generale inoltre è che il museo sia un po’ neutro e asettico, descriva bene la storia delle migrazioni ma senza colpire efficacemente il cuore e l’immaginazione. A titolo di confronto, chi visita l’”Immigration Museum” nell’Ellis Island di New York e attraversa lo stanzone di prima accoglienza e la serie di locali ben conservati destinati ai colloqui e alle visite mediche, con le foto d’epoca e i vecchi registri degli arrivi, ricava un’impressione molto più immediata e angosciosa della realtà dei dodici milioni di immigrati che vi transitarono, in gran parte italiani. Detto questo, una visita al nuovo museo di Anversa è indispensabile, per ricordare chi è fuggito dalla miseria, dai totalitarismi e dalle guerre e ha poi trovato una nuova patria che l’ha faticosamente integrato. Da questa esperienza del passato si può imparare a guardare senza pregiudizi la realtà di oggi.
(Gianluigi Comini)

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