LA MORTE RIMOSSA? NO, E’ BANALIZZATA

Il filosofo francese Rémi Brague: ridotta a un oggetto su uno schermo «Videogiochi, eroi persino con più vite». «Applausi alla bara, ma per cosa?»

Qualcosa è cambiato, in noi, rispetto a un'epoca in cui gli esseri umani consideravano la loro condizione mortale un dato ovvio. Gli storici e i sociologi sottolineano come, sull'argomento morte, sia sceso un silenzio imbarazzato: nelle società opulente il lutto adotta uno stile minimalista e «le lacrime di cordoglio – scriveva Philippe Ariès – sono assimilate alle secrezioni della malattia. Le une e le altre sono ripugnanti». Abbiamo interpellato uno dei più autorevoli pensatori contemporanei, il filosofo francese Rémi Brague, perché ci aiuti a riflettere su questa trasformazione del costume. Professor Brague, di fronte al lutto oggi ricorriamo spesso a formule stereotipate, o applaudiamo al passaggio del feretro, durante il funerale. D'altra parte, in molti film e videogiochi la morte è esibita in forme truculente. Come si spiega questa alternanza tra la rimozione e il voyeurismo? «La sovra-rappresentazione della morte, con i relativi fiotti di emoglobina nei film, è una tattica per
banalizzare la morte stessa. Questa è ridotta a un oggetto che osserviamo su uno schermo, restandone a distanza: così, rimaniamo convinti che una cosa del genere possa capitare solo ad altri, preferibilmente ai "malvagi". Pensiamo anche ai videogiochi, in cui gli eroi-concorrenti hanno più "vite": basta premere un tasto perché essi resuscitino e ricomincino le loro avventure. E infine, pensiamo alla moda dei piercing, che spesso comportano delle piccole mutilazioni. Non potrebbe essere un modo per "vaccinarsi" contro la morte? Quanto all'usanza di applaudire al passaggio della bara, in Francia non mi è ancora capitato di vedere una cosa del genere, ma forse anche noi ci adegueremo presto. La domanda che mi viene spontanea è: per che cosa, propriamente, si dovrebbe applaudire? Perché si pensa che il defunto abbia portato finalmente a termine la corvée della vita, liberandosene?». Franz Rosenzweig sosteneva che la filosofia ha cercato in molti modi di «strappare alla morte il suo aculeo velenoso». Ha esortato gli uomini, ad esempio, a non preoccuparsi del proprio essere individuale e ad anteporgli gli interessi della «collettività»: emblematicamente, il positivista Moleschott proponeva di bruciare i cadaveri «per fertilizzare con le ceneri i maggesi e i campi deserti»... «E tuttavia, proprio la morte costituisce il sigillo della nostra "singolarità", perché avviene sempre in una totale solitudine. Succede così anche negli stermini di massa, come quelli che si sono succeduti nel secolo scorso; e persino quando si muore circondati dall'affetto delle persone care. Non sono mai mancati, nel corso della storia, i tentativi di togliere alla morte il suo pungiglione: ma per raggiungere questo obiettivo, ci viene chiesto di rinunciare alla nostra individualità, o di dimenticarcene». È solo una frase fatta, quella per cui la dimenticanza della morte andrebbe di pari passo con il disamore per la vita? «Le banalità possono anche risultare vere: l'espressione "due più due fa quattro" è decisamente banale. Analogamente, è vero che la dimenticanza della morte e il disgusto per la vita, anziché escludersi a
vicenda, procedono assieme. Ma è poi così certo, che noi amiamo la vita? Nel mio libro "Les ancres dans le ciel" ("Ancore nel cielo. L'infrastruttura metafisica", Vita e Pensiero, pp. 102, 13 euro, ndr.) ho proposto una distinzione al riguardo. "Amare la vita" può significare, in molti casi, "vivere con piacere": in questa accezione, ciò che si ama è la propria vita e dunque, in ultima analisi, si ama se stessi. D'altra parte, se davvero si "ama la vita" – in senso rigoroso, ritenendo cioè che sia di per sé buona, anche quando non è la mia –, bisognerebbe impegnarsi a farne dono ad altri. Io ritengo che proprio la certezza dell'originaria bontà dell'esistenza oggi stia affievolendosi, e tale tendenza ha delle conseguenze pratiche assai pesanti: l'umanità pare non essere più convinta che valga la pena di mettere al mondo delle nuove generazioni, anziché estinguersi». Il cristianesimo riafferma il principio della positività della vita, ma da una prospettiva «strana»: annunciando che Dio stesso avrebbe sperimentato la morte e sarebbe addirittura disceso agli inferi. «Il Sabato santo è stato l'unico giorno in cui l'"uomo folle" di Nietzsche, che in un aforisma de "La gaia scienza" annuncia la "morte di Dio", ha davvero avuto ragione. Riflettendo sul significato della passione di Gesù, i Padri della Chiesa avevano intuito una profonda verità: "Ciò che non è stato assunto, non è stato guarito. È ciò che è unito a Dio che è salvato", affermava Gregorio Nazianzeno. Detto diversamente: il Cristo ha dovuto prendere su di sé l'umanità in tutte le sue dimensioni per poterla redimere; dunque, ha dovuto assumere anche la nostra finitezza e mortalità. Il cristianesimo annuncia qualcosa di strano, come lei diceva: sarebbe tutto più facile – per noi e per Dio – se la morte fosse semplicemente abrogata. Però, in questo modo, sarebbero cancellate anche la finitezza e la singolarità di ogni persona umana». La promessa della vita eterna non costituisce in ogni caso un farmaco contro la paura della morte, che pure Gesù ha provato. «Effettivamente Cristo ha sperimentato la morte, e lo ha fatto in una maniera infinitamente più profonda di qualsiasi altro uomo. Su Giulio Cesare Vanini, condannato a morte per blasfemia nel 1619, ci è stato tramandato un aneddoto a suo modo istruttivo. Prima di essere strangolato e arso sul rogo, egli si sarebbe paragonato a Gesù: questi, nel Getsemani, aveva tremato e sudato sangue, mentre Vanini si vantava di non aver paura. Oggi non possiamo che compiangerlo, e biasimare il tribunale che lo condannò. Ma quale morale si può trarre da questo racconto? Tutti noi abbiamo con la morte un rapporto torbido: la temiamo ma anche la desideriamo in certo modo, come sosteneva Freud, che aveva appunto introdotto il concetto della "pulsione di morte". Gesù, invece, era libero da qualsiasi complicità con la morte: egli doveva considerarla come una perfetta antagonista, una realtà a lui totalmente opposta. Proprio per questo, se si prende la morte sul serio, non si può scambiare la resurrezione per una sorta di "reincarnazione" che ci farebbe tornare a una vita analoga a quella precedente: è un ribaltamento completo, piuttosto, un passaggio a una forma d'esistenza di cui attualmente non abbiamo alcun presentimento». Giulio Brotti ( da L’Eco di Bergamo)

Post popolari in questo blog

La chiesa di Sainte-Alix

Il nuovo arcivescovo di Malines-Bruxelles

Un nuovo inizio