ASSOCIAZIONI: E SE CI CREDESSIMO ANCORA?

Dal “Il Messaggero di sant’Antonio”, gennaio 2011 edizione per l’estero, leggiamo un interessante intervento di Graziano Tassello * dal titolo: “E’ possibile ricuperare l’associazionismo e rigenerarlo?”. Non mancano certo i “social network” e la rete che fa “cliccare e contattare” milioni di individui, ma, forse, ci vuole “anima e core”.

E’ inutile negarlo: le associazioni tradizionali sono da tempo in crisi. Non tanto perché abbiano cessato di svolgere attività, mantenere contatti tra i soci, essere visitate dagli assessori regionali di turno o da aspiranti parlamentari che ritengono che esse costituiscano una buona base elettorale. Sono in crisi perché sembrano incapaci di generare qualche cosa di nuovo puntando su scelte capaci di illuminare la notte a cui il governo italiano ha condannato la diaspora italiana nel mondo. L’attesa di sussidi “politici”, spesso rivelatisi solo parole suadenti, ha smorzato la creatività. Di fatto, agli italiani all’estero qualche cosa sarebbe dovuto da parte dello Stato italiano. Ma quando non si crede nell’etica del bene comune, il discorso cade nel vuoto.

È mancata, in questi anni di transizione e di invecchiamento dei soci, un ripensamento sulla natura dell’associazionismo. Si è preferita la rassegnazione. Anche le riflessioni assai interessanti del Cgie (Consiglio generale degli italiani all'estero) sono in gran parte cadute nel vuoto. Al di là dei ricordi di un impegno fattivo nella prima fase dell’emigrazione (non si è molto studiato questo aspetto in Europa, oppure è stato letto meramente in chiave partitica), le associazioni hanno fatto leva sulle Regioni, che hanno dato l’impressione di aver scoperto un’improvvisa miniera d’oro nei legami commerciali con la diaspora, tali da risollevare le sorti dell’economia locale. Significativo, in proposito, il discorso di Daniele Stival, assessore della regione Veneto che, in occasione del quinto meeting dei giovani veneti nel mondo tenutosi a Bruxelles nel luglio scorso, ha tenuto a ribadire: «Il lavoro che ci attende deve essere improntato alla massima concretezza e a generare benefici; la rete di relazioni che è stata creata e che noi cercheremo di implementare deve produrre ricchezza, anche culturale, ma soprattutto economica. Voi giovani non potete che essere i protagonisti, gli artefici di queste politiche». Un desiderio legittimo che va, tuttavia, monitorizzato, per non correre il rischio di generare una guerra tribale e triviale tra camere di commercio e Regioni e tra italiani di Regioni “attente alla diaspora” e italiani di Regioni “menefreghiste” verso i residenti all’estero. Se l’economia diviene l’unica nuova forza aggregante, viene distrutto tutto il tessuto associativo basato sul volontariato, sulla gratuità e sulla solidarietà. Oltretutto, sono solo queste le vie maestre che possono riavvicinare le prime alle successive generazioni?

E’ possibile un recupero? E come interessare i giovani?
Stupisce non poco che associazioni tradizionali di chiara matrice cristiana trovino difficoltà a rinnovarsi puntando su valori che sono parte fondamentale della cultura umana e cristiana. Anche in questo campo, la crisi religiosa ha giocato un ruolo negativo. È possibile recuperare l’associazionismo e rigenerarlo? È possibile interessare i giovani, gli unici che possono cambiare? È possibile interessare i soci della prima generazione a opere di solidarietà non saltuaria, come la cura di anziani soli e abbandonati, coinvolgendo attivamente persone che hanno ancora davanti a sé parecchi anni altrimenti sprecati giocando a carte e guardando la Tv e nient’altro? È possibile mettere a buon fine i fondi che le associazioni con tanti sacrifici hanno accumulato negli anni per finanziare microprogetti destinati alla comunità, come l’adozione di un insegnante d’italiano per insegnare la lingua e la cultura italiana a nipoti e pronipoti? Jacques Deridda nel 2000 scriveva: «Le persone che sono state costrette ad abbandonare la patria (…) hanno in comune due sospiri, due nostalgie: i loro morti e la loro lingua». Ma se non viene coltivata la nostalgia della lingua, la lingua muore. Questo residuo di appartenenza, che è la lingua materna, non dovrebbe andare perso: altrimenti si perde una ricchezza, poiché l’umanità deve rimanere un mondo a più voci. E la lingua non deve solo significare «valore e patrimonio per nuove professionalità nelle comunità emigrate» (cfr. La friulanità davanti alle nuove sfide del mondo, «Friuli nel mondo», agosto 2010, p. 3).
Sognare qualche cosa di nuovo, cominciando dalla base, appunto dalle associazioni fatte di anziani e di pochi. Perché se muoiono anche i sogni, non resta che piangere. Sognare significa incominciare a guardare fuori dell’uscio di casa propria per abbracciare un mondo più vasto, per entrare in relazione. L’orizzonte per i sogni non ha limite: una banca del tempo, una banca delle risorse, gruppi di volontari per il terzo mondo, un servizio civile aperto ai pensionati emigrati. Rimboccarsi le maniche, facendo leva su valori che le associazioni tradizionali una volta avevano a cuore, reinterpretarli, avere il coraggio di non correre dietro alle sirene, che non portano lontano, e non avere paura di camminare da soli, proprio come agli inizi della storia dell’emigrazione, quando gruppi di emigrati analfabeti erigevano scuole per i figli e vivevano di solidarietà tra di loro. (Padre Graziano Tassello-Messaggero di sant’Antonio, edizione italiana per l’estero)
* Cserpe (Centro studi e ricerche per l’emigrazione), Basilea, presidente della Commissione Scuola e Cultura del Cgie

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