EDUCARE I GIOVANI ALLA MOBILITA'


Lunedì 26 ottobre si è tenuta a Bruxelles, una giornata di studio sulla realtà giovanile in contesto migratorio. Organizzata dalla Commissione episcopale “pro migrantibus”, erano invitati gli operatori pastorali delle comunità linguistiche, i responsabili della pastorale giovanile e gli insegnanti della scuole. Poco più di 80 persone hanno partecipato ai lavori introdotti dal vescovo di Gent, Mons. Luc Van Looy Presidente della “Pro migrantibus” che ha condiviso tutta la giornata. Mark Butaye segretario generale ha coordinato gli interventi dei relatori.

La laicità sa integrare i giovani?

Bonaventure Kagné ha portato una riflessione puntuale e fortemente sociologica sulla realtà della Laicità e dell’integrazione emersa da uno studio del Cémis (centre d’étude et de mémoire des migrations subsahariennes).
I contesti religiosi in cui si trovano i giovani di origine migratoria presentano elementi di blocco o di aiuto per un equilibrata integrazione nella società attuale. Non sempre la religiosità della famiglia è garanzia di un’appartenenza o di un impegno nella società.
I contesti religiosi della realtà migratoria sono diversi, spesso fragilizzati in esperienze familiari o di clan, sempre più diluiti nelle nuove generazioni e, a volte, si scontrano con una laicità promossa fortemente dallo Stato civile e politico.
Se da una parte la religione è fortemente radicata dalla prima generazione migrante, non lo è altrettanto nei figli. Quale religione per i giovani? Quale impatto e problematiche nascono dalla laicità? Si riconoscono e riescono a dialogare con lo stato laico che rifiuta di entrare nelle tematiche religiose relegate esclusivamente alla sfera privata? Quali conseguenze per il contesto scolare, per l’educazione, per le istituzioni portanti la forza dei migranti come la famiglia e la solidarietà culturale, linguistica e religiosa?
Qualcuno afferma che la diversità ed il problema dei giovani dal punto di vista della religione è quello che trent’anni fa i giovani erano credenti e non praticanti, oggi, al contrario, possono essere praticanti ma non credenti, con un elevato rischio per le derive fondamentaliste ed integriste.

Pregare nella propria lingua

Padre Silvio Vallecoccia, scalabriniano, partendo dalla sua esperienza personale e dal servizio alla pastorale internazionale che assicura nella Diocesi di Colonia ( Germania), chiarisce subito che stiamo parlando dei giovani migranti di estrazione cristiana, cattolica che escono da un tradizione familiare religiosa e che ci interpellano perché non partecipano alla vita ecclesiale delle nostre parrocchie.
La lingua e la cultura è il modo principale della traduzione della fede e richiede un’attenzione seria nel nostro modo di avvicinarci ai giovani. Non va negata una certa ansia nel voler integrare il 33% della popolazione che presenta origini straniere e del 50% che ha almeno un genitore di origine di altra madre lingua. L’innegabile servizio svolto dalle missioni linguistiche che accolgono e contano su una buona presenza dei giovani, è chiamato a coniugarsi con una relazione con le altre comunità e con le strutture parrocchiali della chiesa locale. La gradualità e l’impegno a tempi lunghi per un dialogo che può crescere in simpatia e amicizia diventa la forza per una apertura che sa trasformare l’incontro sul territorio come opportunità per conoscersi, stimarsi e condividere una fede che porta il cristiano alla fonte comune e unica che è il Signore Gesù Cristo.
Diversi tentativi fanno crescere il progetto diocesano che vuole coinvolgere e dare spazio ai giovani cristiani di origine migratoria e locali. Appuntamenti regionali sulla base linguistica e appuntamenti diocesani spingono le singole realtà parrocchiali e di comunità linguistiche a dialogare senza rinunciare alle proprie culture di origine che danno corpo alle rispettive identità raggiungendo una consapevolezza di essere chiesa locale chiamata a riflettere la Chiesa universale e cattolica di Cristo.
Altre realtà dialogano con i giovani: movimenti, scuole, associazioni giovanili cattoliche e insieme alle realtà territoriali della comunità linguistiche e parrocchiali evidenziano un lavoro che spinge non per l’integrazione ma verso una “cattolicità” di figli di Dio. Il legame di amicizia è il buon frutto della volontà di conoscenza reciproca e del desiderio di incontrarsi. Possiamo ascoltare e dire la fede in diverse lingue e modalità e questo ci aiuta al migrare della fede che sa manifestarsi in luoghi, culti, canti e espressioni culturali diverse: e questo è molto arricchente per tutta la chiesa.
Così la chiesa locale diventa realtà della cattolicità costituita e si lavora non tanto per una chiesa nazionale ma per rispondere alla chiamata universale.

Educare alla mobilità

Il salesiano padre Jean-Marie Peticlerc partendo dal suo servizio di educatore espresso nei quartieri di forte presenza migratoria dove i problemi si fanno complessi e manifestano profondamente i cambiamenti avvenuti, ricorda che si tratta pur sempre del difficile rapporto adulti-giovani e che abbiamo ormai capito che non regge più il “far venire” in giovani, ma piuttosto “andare verso” i giovani e piantare la nostra tenda là dove vivono.

Una lettura sociologica, da cui non possiamo prescindere, mostra la realtà giovanile con determinate caratteristiche. Le relazioni si giocano “tra pari” e quindi, autorità familiari, scolastiche, civili e religiose, sono fortemente messe in discussioni ed evitate.
Alcune caratteristiche: il linguaggio, da quartiere, da banlieu, inventato con fraseggi, diminutivi, parole che hanno creato un linguaggio pressoché incomprensibile. E’ la lingua dei giovani che loro capiscono ed il mondo degli adulti e familiare fatica a comprendere.
I modelli di vita: i giovani hanno ben integrati i modelli che abbiamo loro trasmesso. Modelli di consumo e di riuscita ma che si scontrano con la mancanza di mezzi economici e di opportunità e quindi sfociano in una grande frustrazione perché irrealizzabili.
La banalizzazione della violenza è un’altra caratteristica che nasconde una debole stima di sé e che vuole imporre duramente la propria esistenza perché ci si accorga della presenza. L’appartenenza al territorio diventa la nuova carta di identità e di appartenenza, trasformando i giovani in nuovi “patrioti” del quartiere.
Andare verso i giovani diventa la scelta obbligata che richiede pazienza, un impegno di lunga durata, un approccio globale che sia attento a tutta la persona. E’ indispensabile coltivare il partenariato che sa riconoscere le diverse agenzie esistenti sul territorio e con esse mettersi in rete per un lavoro efficace che sa costruire una casa per l’accoglienza, una scuola per formare e il gioco per ricreare e legare. I contesti dove incontrare i giovani sono la strada, le piazze, la scuola e la famiglia dove sostenere la genitorialità e la mediazione generazionale. Il limite più disastroso: l’incoerenza degli adulti che accompagnano i giovani.
Così si impone a tutti gli operatori il compito di educarsi ed educare alla mobilità, per uscire dai ghetti e dalle sicurezze circoscritte che non permettono di respirare l’interculturalità e la diversità sociale in cui viviamo evitando il rischio di ghettizzare e diventare autoreferenziali.

Le sfide che i giovani pongono alla chiesa sono stimolanti: Raggiungere i giovani nel contesto in cui vivono: la famiglia, la scuola, gli ambienti e le attività che vivono, riprendendo a percorrere le strade rendendoci presenti e capaci di ascolto. L’attenzione per i più piccoli e fragili è primaria per combattere l’esclusione e farsi più vicini agli ultimi. Abbiamo un potenziale enorme che ben conosciamo: la fraternità. E’ una risposta rivoluzionaria che sa offrire una risposta efficace alla complessità sociale e ideologica e può ridare senso e gusto alla vita di ogni persona.

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