MOBILITA' O VERA EMIGRAZIONE?

C’è oggi un modo nuovo di migrare, che interessa soprattutto un’ampia fascia giovanile e che pone problemi inediti di integrazione e di cura pastorale. Alla base, un sistema politico ed economico italiano in netto ritardo.
Riportiamo un articolo interessante di Elio Dalla Zuanna pubblicato su SETTIMANA delle Edizione Dehoniane
Un numero assai elevato di giovani abbandona l’Italia. Non ci sono statistiche ufficiali, ma si stima che siano circa 60.000 i giovani che ogni anno lasciano il nostro paese. Se n’è parlato a Basilea, città crocevia di antiche e nuove migrazioni, nell’ambito di un seminario promosso dalle Acli Europa,
l’8 febbraio scorso, ponendo il quesito: mobilità o emigrazione? E ciò in riferimento all’entità e alla tipologia del nuovo fenomeno migratorio che interessa la società italiana. C’è, infatti, chi parla di “cervelli in fuga” e chi di nuovi migranti a caccia di futuro... Il tema è stato approfondito dall’intervento di relatori autorevoli con numerose testimonianze di giovani italiani provenienti sia dalla  Confederazione elvetica sia da altri paesi UE, alcuni con una emigrazione di successo, altri tuttora in cerca di sistemazione. Si è parlato di questo nuovo flusso migratorio italiano verso l’Europa e delle ricadute economiche e sociali che esso comporta. Si è discusso di politiche e di prospettive dell’UE e del ruolo dell’associazionismo e della società civile europea.

I nuovi migranti

Nel nostro paese cresce la preoccupazione per un fenomeno che assume dimensioni sempre più corpose e che inizialmente riguardava soprattutto giovani laureati e ricercatori, mentre ora “vanno via” anche giovani artigiani, famiglie normali ed ex emigrati che tornano nei luoghi in cui hanno vissuto per anni. Osservare il nostro paese in questo momento – veniva detto – è come riguardare delle foto inizio anni 60, con l’unica differenza che le valigie di cartone sono state sostituite da trolley ergonomici e porta laptop. Credevamo di avere chiuso definitivamente con l’emigrazione, con le partenze e con le famiglie divise, con il cliché di milioni d’italiani con la valigia, anche se i nuovi migranti non si spostano con le navi e con i treni notturni degli emigranti ma volano low cost per cercare fortuna all’estero.
Dopo lo scoppio della crisi mondiale nel 2008, in un crescendo impensabile sono emerse tutte le difficoltà del sistema politico ed economico italiano. Difficoltà sottovalutate per anni – basti pensare che in vent’anni la politica ha partorito al massimo due o tre riforme degne di tale nome – e il riflusso della crisi sull’Italia e sulle famiglie italiane si fa sempre più preoccupante: decine di migliaia di posti di lavoro scomparsi, disoccupazione giovanile ai massimi storici soprattutto tra gli under 24, ben 2,8 milioni di precari nel 2012. Numeri inquietanti, nonostante le misure legislative a sostegno dell’occupazione giovanile. Gli effetti di quelle misure sono deboli e marginali, perché non incidono sui nodi strutturali e sono interventi normativi disgiunti da radicali riforme del sistema. I giovani in fuga da una nazione che invecchia sempre di più costituiscono un grave depauperamento. Le risorse intellettuali per le quali il nostro sistema paese ha investito ingenti somme di denaro non possono essere rimpiazzate (almeno non subito) dagli immigrati che giungono da noi. Così il danno appare in tutta la sua gravità, anche se tendenzialmente – in maniera un po’ eufemistica – si propende a classificare il tutto con il nuovo carattere “transnazionale” della mobilità. Di fatto l'Italia è un paese  vecchio (dati Istat 2012), il più vecchio d'Europa, dopo la Germania. L’Italia è un paese con un alto tasso di disoccupazione giovanile in Europa: oltre il 40% (fra 15 e 24 anni), in ulteriore crescita nel 2013. Nelle regioni meridionali raggiunge quasi il 50%. Non solo, l’Italia è anche il paese dei Neet (acronimo inglese di Not (engaged) in Education, Employment or Training), cioè di quelli – per dirla in breve – che non studiano e non lavorano, circa due milioni: il dato peggiore, nei paesi dell'Ocse, dopo il Messico. L’Aire, ossia l’Anagrafe italiani residenti all’estero, registra il 2012, l’anno nero della crisi, anche come l’anno del boom degli espatri, con 4.341.156 italiani residenti oltre confine, un aumento del 30% rispetto al 2011. Ad abbandonare l’Italia in crisi sono più gli uomini che le donne, il 56% contro il 44%, con un’età media di 33 anni e i laureati sono più del 27%. È di fatto una vera e propria nuova emigrazione da un paese in crisi, dove scarseggia il lavoro, ma dove soprattutto manca una visione del futuro, una prospettiva e una chance. Così diviene comprensibile, perfino conseguente, che moltissimi giovani (8 su 10, dati Demos) siano convinti che, per fare carriera, occorra partire dall’Italia. Se la ricerca di un lavoro stabile e stimolante è la molla che fa decidere ai giovani italiani di emigrare, non è tuttavia l’unico motivo che giustifica la scelta di dire addio all’Italia. Un paese con un welfare efficiente, con un’economia competitiva e una società multiculturale, possiede beni primari che vengono attentamente valutati da chi sta pianificando la propria partenza.
Oltre a ricercare migliori condizioni lavorative, infatti, i giovani italiani sono alla ricerca anche di contesti sociali nei quali il loro ruolo sia riconosciuto come risorsa e in cui il loro apporto sia valorizzato
in maniera meritocratica

Come uscirne?
La mobilità è indubbiamente parte del mondo che viviamo, ma da sola non spiega – veniva detto – perché gli italians of London sono ormai mezzo milione, una diaspora che per le istituzioni italiane dovrebbe essere fonte di grandi
preoccupazioni. Negli ultimi 18 mesi sono sbarcate ufficialmente
sull’isola britannica 90 mila persone, in fuga dalla nostra penisola in cui si lavora tanto ma si lavora male e in cui la meritocrazia da decenni ha ceduto il passo al nepotismo, alle raccomandazioni e al familismo amorale. Come ne usciamo? Una prima risposta identifica nell’UE il punto di massima attenzione. Sul piano interno, invece, occorre creare un circuito virtuoso tra sistema di ricerca e di alta istruzione in Italia a vantaggio sia degli italiani che intendono riportare la loro esperienza dall’estero sia degli stranieri che intendono fare esperienze in Italia. Il presupposto, però, sta nel potenziare e ammodernare l’attuale sistema – per molti aspetti superato – della ricerca e dell’università. Solo in questo modo si attuerebbe quella circolarità di esperienze professionali e quell’utilizzo dei cervelli da cui traggono giovamento i paesi più avanzati del mondo. Tornando all’attualità, vi è da far fronte a un’emergenza che si sta rivelando di giorno in giorno più pressante. È urgente, infatti, delimitare  la “dislocazione” dei nuovi migranti, per evitare di esportare il precariato dall’Italia all’estero. Le
risposte non sono semplici e scontate, ma almeno bisogna parlarne e sensibilizzare le forze governative e in particolare il ministero degli esteri a farsi carico del problema. E occorre lanciare un appello a tutto l’associazionismo italiano all’estero che, come in passato, è chiamato a svolgere il proprio ruolo con la passione e la solidarietà che ne hanno per decenni connotato l’azione. Il migrante della nuova generazione se ne va individualmente e altrettanto individualmente si installa nel nuovo paese, cercando su internet il modo con il quale altri individui come lui e prima di lui abbiano risolto i loro problemi. Questa è un’occasione persa per le associazioni e per le istituzioni, che non si fanno trovare là dove vengono cercate, o è semplicemente la conseguenza diretta di un mondo in cui chi emigra non ha più bisogno di nascondersi dietro una comunità d’origine per potersi integrare?

L’integrazione
Dal confronto tra comunità emigrate residenti in uno stesso spazio nascono importanti parallelismi e
campi d’azione. E ci si rende rapidamente conto di come, in tutte le comunità di tutti i paesi d’Europa,
la comunicazione tra generazioni diverse di emigrati è più facile se è collocata all’interno di un contesto più ampio, europeo, appunto, o perlomeno in un contesto di cittadinanza attiva applicata ad una realtà. Questo è tanto più vero per la nuova emigrazione che spesso è portatrice di identità multiple, emigra più volte in più paesi, e non si riconoscere più, quindi, in un’unica appartenenza, quanto piuttosto nella possibilità di partecipare alla vita di una comunità, magari prendendo come punto di partenza un’identità ancora da costruire (quella europea) o un’identità inclusiva (quella determinata da uno stesso spazio territoriale localizzato). Si rivela quindi importante la nascita di nuove forme di collegamento e di associazionismo che i giovani, espressione dell’era delle comunicazioni digitali, cominciano a costruire. Si apre qui una sfida altrettanto impegnativa per la cura e l’accompagnamento pastorale delle forme antiche e nuove della migrazione. È una storia che si ripete, ma solo in parte, per le antiche strade d’Europa, e non sarà con l’introduzione di “un tetto all’immigrazione” che si potrà impedire di percorrerle.


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