LA NOSTRA CULTURA CURA POCO I RAPPORTI E MOLTO LA PROPRIETA’

Maraini: non si coltivano le relazioni, per questo la morte è tabù Biondillo: quando si moriva in casa, tutti i familiari partecipavano

Foto: "La danza macabra" dell'artista Bruxellese Michelle Grosjean
 
Vincenzo Guercio La grande dimenticata, rimossa, esorcizzata. La Morte, i morti, il culto marmorizzato, formalizzato, costretto nella sola ricorrenza deputata. Dacia Maraini ha scritto un libro, «La grande festa», in cui (ri-)evoca, «nel giardino dei pensieri lontani», i suoi morti. «Parlo di mia sorella, mio padre, il mio compagno, in maniera narrativa, ma il tema è rivivere i rapporti attraverso i sogni, il ricordo». La cesura fra la vita e la morte è «malsana, ingiusta». Non bisogna «cacciar via i morti, eliminarli dalla nostra vita, dimenticarli». Piuttosto continuarne la vita, la
memoria, il rapporto con noi, dentro di sé, «in modo affettuoso, tenero». Oggi, «nella iconografia diffusa, specie al cinema, non c'è amicizia con i morti». Nel mondo contadino «si faceva una festa per compensare la perdita». Quel mondo «aveva almeno un buon rapporto con la morte, che la civiltà industriale non ha più». Oggi la persona malata «muore in ospedale, spesso sola. Prima la fine era occasione per radunare tutta la famiglia. Anche i bambini partecipavano al momento del passaggio. Ora sono "protetti" contro l'idea della morte. Addirittura la si nega: la persona "è andata via, partita, si è allontanata"». La parola stessa è «tabù». Perché? «Abbiamo perso i rapporti. La morte fa parte della vita. Viviamo in una cultura che cura poco i rapporti e molto la proprietà. Più una cultura dell'avere che della relazione». La festa del 2 novembre «è un rimasuglio di qualcosa che non c'è più». Quando gli parliamo, sta andando al cimitero a trovare suo padre, Gianni Biondillo; che, da valente giallista, di morti, nelle sue pagine, ne ha stipati diversi. «Mi vengono in mente le parole di Foscolo: i sepolcri servono ai vivi, per creare questa "corrispondenza d'amorosi sensi"». Tutta la nostra civiltà è «continuamente popolata di morti: in televisione, sui giornali, il morto tira, fa audience». Ma, allo stesso tempo, la morte «la vediamo sempre meno nella realtà: si muore di nascosto, in ospedale, in zone protette». Una volta «si moriva in casa, tutti partecipavano alla ritualità del moribondo che chiamava a sé i familiari». Non vedendola più «dobbiamo ri-rappresentarla dal punto di vista simbolico attraverso fiction e polizieschi». Siamo ossessionati dall'idea della morte «perché ossessionati dall'idea della giovinezza. Non si può più invecchiare. La morte ci pone di fronte all'evidenza biologica, mentre tutta la nostra esistenza è culturale». Nei suoi libri? «Subito dopo "Cronaca di un suicidio" ho scritto una giocosa fiaba per bambini: non si può vivere pensando di essere per la morte, bisogna cercare di essere per la vita». «L'idea della morte è polvere nascosta
sotto il tappeto», sintetizza Erri De Luca. «Gli ammalati sono cosa da far scomparire». Più in genere, «l'età dei vecchi viene nascosta, ospedalizzata come fosse una malattia». Ma lo scrittore viene da una città, Napoli, dove «l'intimità con la morte era ed è quotidiana, accettata, naturale, indispensabile». I morti «servivano, dovevano provvedere ai vivi, con i loro suggerimenti continui: numeri al lotto, scongiuri, voti. Un aldilà che portava sempre nell'aldiqua, stava sempre in mezzo ai piedi». Oggi? «A Napoli il culto dei morti c'è ancora, ben vivo». Non solo la famosa «reliquia sanguigna» di san Gennaro, tante altre ce ne sono che producono questo «miracolo di andata e ritorno». E non solo nelle teche. Ancora ci sono i devoti che «adottano una testa di morto al cimitero delle Fontanelle, la vanno a ripulire, la curano». Cronista di nera, probabilmente il più famoso in Italia, nonché scrittore e giallista, di morti Piero Colaprico ne ha visti/frequentati parecchi: «Anche nella malavita è cambiato il senso della morte. È stato, in primo luogo, con i pentiti e le stragi di Palermo. Prima non era concepibile che un uomo d'onore uccidesse le donne come era inconcepibile il tritolo sull'autostrada, una logica così apertamente stragista». Altro cambiamento: tra criminali «anche di livello basso, di periferia», prima di uccidere «ti bruciavano la macchina, ti
sparavano alle gambe». Ora è saltata la fase dell'avvertimento, «si è abbassato il senso del rispetto della vita, dell'importanza della morte». Riguardo ai «normali», «più che la morte fa paura la pre-morte, la vecchiaia». Il che dimostra che «non sei capace di convivere con una certezza che abbiamo dal primo istante di vita: che, fortunatamente, un giorno moriremo. Nessuno lo accetta più». Le morti televisive e i morti veri per strada, o accasciati sul volante di una macchina... Che rapporto c'è? «Quando le morti vengono raccontate, soprattutto dalla tv, c'è una banalizzazione, una superficialità della tragedia: quando la vedi da vicino ti accorgi che è lontanissima dalla realtà». Tiziano Scarpa, invece, cita san Francesco: la Morte «è una sorella perché ti sprona a non sprecare la vita. Come presenza, notizia, rappresentazione, nell'arte, al cinema, nei media, non viene affatto rimossa». Colpisce, piuttosto, «un'offerta di occupazioni frivole che vengono diffuse come avessimo un tempo infinito per twittare e chattare». In questo senso, sì, viene rimossa: «come proprio limite, come se molti viventi attuali non ascoltassero la voce di sora morte corporale che dice: -Forse è il caso che ti occupi di cose più importanti». Don Armando Matteo, assistente ecclesiastico nazionale Fuci, ha dedicato un libro al rifiuto di adultità, vecchiaia e morte, al mito onnivoro della giovinezza,
all'immaturità adulta: «La prima generazione incredula» (Rubbettino). Più recentemente ha pubblicato, per Qiqaion, casa della Comunità di Bose, «Il cammino del giovane», un capitolo del quale è dedicato al tema del rapporto con la Morte. «Non a caso la nostra – spiega – è stata definita "società post-mortale". La stessa rimozione della parola, anche dai contesti più propri e normali, caratterizza la nostra cultura». Persino nei manifesti funebri uno «scompare, compie l'ultimo viaggio, si spegne, si addormenta, si trasferisce, torna alla casa del Padre, ma nessuno muore». La morte, invece, è «una parola educativa importante, ci ricorda la nostra finitezza ma, d'altra parte, la nostra singolarità». C'è questa «grande cultura del giovanilismo, costantemente alimentata dalla subcultura dei media, che fa apparire tutto ciò che ha a che fare con vecchiaia malattia morte come il male assoluto, da rimuovere completamente». Da ciò alcuni «disastri educativi». L'adulto maturo «sa dare del Tu alla Morte», è «consapevole della verità della vita, quindi della sua finitezza e limitatezza, del fatto che la crescita comporta sempre delle rinunce». È capace della decisione, esperienza «simbolicamente anticipatrice della morte». Rimuovendo tutto questo, si promuove un tipo di educazione «paritetica, antitraumatica», che però «non prepara ad affrontare la vita». Studi, in particolare di Gustavo Pietropolli Charmet, sui suicidi giovanili, rivelano che i ragazzi che giungono a questo gesto estremo, dalle lettere e messaggi che lasciano, sembra «non avessero capito fino in fondo cosa significa morire». Quasi non avessero pienamente interiorizzato il fatto che la morte è un'esperienza definitiva: si muore per sempre, non c'è più alcuna possibilità di ritorno.

da L'Eco di Bergamo del 1.11.2013)

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